Palagonia suite

Comme le précise l’essayiste Giovanni Macchia (1987, p. 2), « en 1770 déjà, la villa Palagonia était devenue une halte obligée pour les voyageurs, aux yeux desquels, de Jean Houel à Goethe et von Arnim, elle semblait résumer toute la bizarrerie des choses siciliennes ». Les monstrueuses statues de la villa étaient initialement au nombre de 250 – certaines sources avancent le chiffre de 600 – et il en reste à présent 62. Pierre Sébilleau (1966, p. 292) a fourni d’exaltantes informations aux personnes qui, de nos jours, souhaitent la visiter : « Ce chef d’œuvre mérite, mieux que tout autre, le nom de « folie ». Sur une place immense, écrasée de soleil, s’ouvre, de guingois, un portail soutenu par deux atlantes hauts de trois mètres, mais qui n’en sont pas moins des nains monstrueux, l’un vêtu en égyptien, l’autre en gentilhomme avec fraise et rhingrave [2] baveuse. Passé ce portail, vous pénétrerez dans un jardin, fouillis de palmiers sales, de cactus mités et d’herbes folles, qu’entoure un mur surmonté d’une frange ininterrompue de statues, hautes d’un mètre environ et représentant des musiciens, des danseurs burlesques, des stropiats, des bossus, des monstres : animaux à tête d’hommes et hommes à têtes d’animaux. Par contre, la villa se présente avec une belle façade convexe aux nobles balustrades. Mais elle n’a pas de porte ! Vous embouchez la seule ouverture qui s’ouvre devant vous : une sorte de tunnel jalonné de statues fantomatiques, qui traverse le corps du logis de part en part et vous mène devant la façade arrière, concave celle-là et encore plus harmonieuse que l’autre, avec son escalier à double révolution. Mais vous n’avez aucun recul pour l’admirer : le mur couronné de grotesques est là tout près, percé d’un autre portail aux atlantes monstrueux. L’intérieur est tout aussi extravagant, mais encore plus désolant de saleté et d’abandon. Vous y accédez par un vestibule ovale, dont les colonnades en trompe-l’œil gardent de l’allure sous une couche de crasse. Mais il faut enfoncer une porte déglinguée pour entrer dans la galerie qui longe la façade convexe et qu’encombrent les débris amoncelés d’une ravissante décoration faite de miroirs, de stucs et de panneaux en marqueterie de verres colorés. À côté, dans une grande salle au plafond tapissé de miroirs vénitiens, sertis d’or mais ébréchés et verdis, on ne trouve plus rien des facéties du prince de Palagonia : statues dont la main était placée de telle façon qu’elle accrochait les perruques au passage, sièges dont un pied se pliait quand on s’y asseyait… ».

Giovanni Macchia

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DIFESA DEI TAGLIAPIETRE DEI MOSTRI BAGHERESI

Contro il severo giudizio espresso due secoli prima dal Goethe, un articolo del giornalista catanese Saverio Fiducia rivalutò nel 1953 l’oscura opera dei creatori delle orride statue settecentesche di Villa Palagonia


A dispetto della sua complessiva eccezionalità architettonica, la Villa Palagonia di Bagheria è conosciuta e visitata soprattutto per le sue bizzarre statue di “mostri” che a partire dal 1747 furono commissionati ad ignoti scultori dal principe Francesco Ferdinando Gravina e Alliata. Fra le molte pagine che raccontano la storia di questi “mostri”, quelle di Rosario Scaduto ( “Villa Palagonia, storia e restauro”, Eugenio Maria Falcone Editore, 2007 ) individuano la loro fonte di ispirazione nell’opera “La Sicilia ricercata nelle cose più memorabili”, pubblicata nel 1742 da Antonino Mongitore:

“Il Mongitore accennò all’esistenza di alcuni animali molto particolari conservati nel museo del Collegio dei Padri Gesuiti di Palermo, come ad esempio, dei due capretti interi e legati nel ventre, dei quali furono pure fatti analisi e disegni ‘per conservarne la memoria; poiché si dubita, che col tempo resteranno consumati’ o quello, al tempo recentissimo, di una vacca ermafrodita nata nella masseria di Antonio lo Monaco, in località ‘Montagna dei cani in Palermo’, cioè nella montagna Pizzo Cane, vicino Bagheria, all’epoca facente parte del territorio di Palermo”

Alcune delle statue dei “mostri”della settecentesca Villa Palagonia

Le fotografie sono da attribuire a Fosco Maraini ed illustrarono un racconto del giornalista catanese Saverio Fiducia apparso nel marzo del 1953 sulla rivista mensile “Tutta Sicilia

 

Ancora Rosario Scaduto ( opera citata ) attribuisce giustamente la “mostruosità” delle sculture di Villa Palagonia anche alle caratteristiche della pietra tufacea utilizzata per abbozzarle: la secolare esposizione all’atmosfera ne ha intaccato l’aspetto originario, sia per l’azione erosiva delle piogge che per le alterazioni di natura chimica, a cominciare da quelle provocate dagli inquinanti atmosferici:
“Si conferma che per alcune delle statue – si legge ancora nel saggio di Scaduto – più che di raffigurazioni mostruose debba invece parlarsi di metamorfosi dei materiali costituenti, che da pietre lavorate e rivestite da una scialbatura di latte di calce, come si mostrano in parte oggi alcune statue si sono trasformate a causa del degrado in spaventosi mostri”
I “mostri” di Villa Palagonia hanno attratto a Bagheria molti viaggiatori illustri del passato; e nessuno di loro, probabilmente, vi metterebbe oggi piede per osservare le moderne mostruosità edilizie bagheresi, visibili già dagli svincoli autostradali dell’autostrada Palermo-Catania.
Ancora Scaduto ricorda i nomi settecenteschi di questi personaggi: Michael De Borch, Johann Wolfgang Goethe, Richard Colt Hoare e Lèon Dufourny.
Fra i tanti autori siciliani che hanno scritto delle deformi statue del principe Francesco Ferdinando Gravina e Alliata figura invece anche il giornalista catanese Saverio Fiducia ( 1878-1970).
Il suo racconto venne pubblicato nel marzo del 1953 dalla rivista mensile “Tutta Sicilia” ( edita a Catania da Edizioni Camene ); le fotografie che corredarono il testo – ora riproposte da ReportageSicilia – sono da attribuire a Fosco Maraini, il cui nome compare nella lista dei collaboratori della rivista.

L’articolo di Fiducia – intitolato “Fantasia dell’arte in Sicilia. Villa Palagonia” – difendeva il valore artistico delle statue dei “mostri”, in aperta polemica con il severo giudizio espresso quasi due secoli prima da Goethe:

“Chi più chi meno ci si indignarono tutti, i viaggiatori del Settecento, nel visitare a Bagheria la villa dei Principi Gravina di Palagonia, dall’Houel al Goethe, per dir dei maggiori; il secondo, anzi, nel ‘Viaggio in Italia’, dedicò alle ‘pazzie’ del Principe sei pagine del suo diario palermitano, mentre – mi perdoni l’ombra magna di Lui – non tracciò un rigo per il Duomo e per la Cappella Palatina, per gli stucchi di Giacomo Serpotta e per le tele di Van Dyck e del Monrealese.E’ una carica a fondo quella dell’autore di ‘Faust’, giustificata dall’avere ricevuto la sua squisita sensibilità vibrante di classicismo, da quella ‘kermesse’ del mostruoso e della caricatura, il più fiero dei colpi.

Mostri, draghi, serpenti, chimere, nani, gobbi, pulcinelli, personaggi mitologici con attributi umoristici, cavalli con mani umane, corpi umani con teste equine, tutto insomma il bailamme di scolture ammassato dal Principe Francesco Ferdinando VII senza discernimento e senza scopo sopra zoccoli piedistalli muri, esasperò Goethe, lui sempre vigilatissimo nei suoi giudizi.
Giacchè a sentir lui, Goethe, ed egli lo avrà senza dubbio appreso a Palermo, ciò che nella Villa vi è ‘di stravagante, di frenetico e di delirante’, è dovuto all’iniziativa di questo VII principe dei Palagonia, che il Poeta stesso vide un giorno in una strada della città in parrucca e spadino, solennemente e gravemente presenziare la questua fatta dai suoi servi per riscattare gli schiavi cristiani di Barberia; ma la la costruzione rimonta al 1715 ed è dovuta ‘nella parte più nobile e punto stramba’, allo zio Francesco Ferdinando e al padre Salvatore, rispettivamente V e VI Principe del casato.$


E dovevano essere gente da tenere di conto questi Gravina, se i re di Spagna insignirono del Tesor d’oro i maggiorenti di essi, e se uno è fama abbia coraggiosamente detto a un tracotante Borbone:’Vostra Maestà può disporre della mia vita, non della mia volontà!’
Del resto, a parte le stravaganze disseminate nella Villa ( sulle quali dirò il mio pensiero ), e per quanto Goethe abbia annotato nel suo Diario:
‘Avrebbe fatto meglio ad impiegare le sue enormi ricchezze nel riscattare gli schiavi, anziché prodigarle per le pazzie della Villa’, anche Francesco Ferdinando VII dovette essere uomo di proposito, se era Capo dell’Opera religiosa dei Mercedari, quella che appunto mirava a liberare gli schiavi, e se ne andava in giro a chiedere l’obolo, sia pure facendo stendere la destra ai servi.
Penso, comunque, che costui sia stato un emerito burlone, uno a cui piaceva beffarsi del prossimo; beffarsi soprattutto, con le sue clamorose trovate, della casta a cui apparteneva.
D’altronde non è la memoria sua che intendo difendere; ma dove Goethe, a mio modo di vedere, esagera, è nel volere coinvolgere nelle ‘pazzie’ del Principe, gli artefici materiali di quelle sculture, e nel giudicarli con severità.
‘L’aspetto disgustoso – scrisse – di questi mostri, abborracciati da un qualsiasi tagliapietre, è reso anche più evidente dal volgarissimo tufo in cui sono scolpiti’.
In quanto al tufo, materia vile, non era copia della Venere Siracusana o dell’Apollo di Belvedere che il proprietario commetteva ai suoi scultori; ma in quanto all’esecuzione di queste opere vituperate, io difendo gli artigiani che le eseguirono.
Basta, per convincersene, guardare la caricatura, che direi aristofanesca, del Socrate addossato ad uno dei pilastri del cancello, e meditare sull’indiavolata fantasia inventiva con cui sono ottenute certe ‘chimere’.
Che il Palagonia abbia dettato il tema di ‘uomini con teste equine’ e di ‘cavalli con estremità umane’, lo ammetto; ma l’inimitabile sorriso ironico di quel goffo Socrate, l’ibrida animalità decorativamente pittoresca di quelle chimere, sono dovuti esclusivamente a quei ‘qualsiasi tagliapietre’.
E poi, sono tutte brutte e repugnanti quelle figure?
Non ve ne sono di danzatrici, di dame e cavalieri, di pastori e di pastorelle, ben proporzionate e impostate, vivacemente mosse?
Io vidi Villa Palagonia molti anni or sono, in fretta in fretta, come in un sogno direi.
Era d’inverno, e la giornata piovosa, le nuvole basse e grigie, creavano attorno ad essa e su di essa un’atmosfera d’infinita malinconia; ell’era veramente la casa di nessuno, destinata a sgretolarsi e a scomparire sotto i rovi e le ortiche.
Nel secolo degli scherzi frivoli ed epidermici, nel secolo dei labirinti, verdi come quello di Stra o di pietra come il Biscariano di Catania, la Villa Palagonia fu una beffa clamorosa, giocata da uno spirito bizzarro alla sua stessa casta.
Oggi non è che la testimonianza di un’epoca; un nobile monumento con particolari stravaganti ma significativi, reso triste dall’abbandono…”

LES FOLIES DU PRINCE P. / GOETHE 9 avril 1787

Les folies du prince Pallagonia nous ont occupés tout le jour. Et ces folies se sont trouvées tout autres que les récits et la lecture ne nous les avaient représentées. Car, avec le plus grand amour de la vérité, celui qui doit rendre compte de l’absurde est toujours embarrassé. Il veut en donner une idée, et par là il lui donne quelque valeur, tandis qu’à vrai dire, c’est un rien qui veut être compté pour quelque chose. Je dois ajouter d’abord une autre réflexion générale, c’est que ni l’œuvre du plus mauvais goût, ni la plus excellente, ne proviennent immédiatement d’un seul homme, d’une seule époque, et qu’avec quelque attention on peut assigner à l’une et à l’autre une généalogie. La fameuse fontaine de Palerme doit être rangée parmi les ancêtres de la démence pallagonienne. Seulement la fontaine est ici sur son propre terrain, et se produit dans la plus grande liberté. Je veux chercher à développer cette filiation.

Si, dans ces contrées, un château de plaisance est situé plus ou moins au milieu du domaine et que, pour arriver à la demeure seigneuriale, il faille passer à travers des terres labourées, des jardins potagers et d’autres établissements utiles d’exploitation rurale, en cela, les méridionaux se montrent meilleurs ménagers que les gens du Nord, qui sacrifient souvent à l’établissement d’un parc une grande étendue de sol fertile, pour flatter la vue avec de stériles buissons. Dans le Midi, au contraire, on élève deux murs, entre lesquels on arrive au château sans apercevoir ce qui se trouve à droite et à gauche. Cette avenue commence d’ordinaire par un grand portail ou même-par un passage voûté, et finit dans la cour du château. Or, afin que l’œil trouve entre les murs de quoi se satisfaire, ils sont courbés en dehors, ornés de volutes et de piédestaux, sur lesquels ça et là peut se dresser un vase ;

Les faces sont ravalées, divisées en compartiments et peinturées. La cour du château forme un rond de maisons d’un étage, où demeurent les valets et les ouvriers ; le château s’élève sur le tout son imposante masse carrée.Telle est la disposition traditionnelle, comme elle a existé probablement jusqu’au temps où le père du prince bâtit le château dans un goût qui, s’il n’était pas des meilleurs, était du moins supportable. Mais le possesseur actuel, sans renoncer à ces traits généraux, permet la plus libre carrière à son goût et à sa passion pour les formes laides, monstrueuses, et on lui fait beaucoup trop d’honneur en lui accordant seulement une étincelle d’imagination.

Nous entrons donc dans la grande salle, qui commence à la limite du domaine, et nous trouvons un octogone très-haut pour sa largeur. Quatre géants énormes, en guêtres modernes, boutonnées, soutiennent la corniche, sur laquelle, vis-à-vis de l’entrée, plane la sainte Trinité. L’avenue qui mène au château est plus large que d’ordinaire, le mur est changé en un socle élevé et continu sur lequel des bases remarquables supportent des groupes étranges, et, dans l’intervalle de l’un à l’autre, s’élèvent des vases nombreux. Ces monstruosités, fabriquées à la hâte par les plus vulgaires tailleurs de pierre, sont d’autant plus choquantes qu’elles sont faites du tuf coquillier le plus tendre. Toutefois une meilleure matière ne rendrait que plus frappante l’indignité de la forme. J’ai parlé de groupes : c’était me servir d’une expression fausse et impropre, car ces juxtapositions ne sont nées ni d’aucune sorte de réflexion ni même du caprice, elles sont plutôt entassées au hasard. Trois groupes forment chaque fois la décoration d’un de ces piédestaux carrés, leurs bases étant disposées de telle sorte que toutes ensemble, dans des positions diverses, remplissent l’espace quadrangulaire. Le groupe principal consiste ordinairement en deux figures, et sa base occupe la plus grande partie de la face antérieure du piédestal. Ce sont le plus souvent des monstres à figure d’hommes ou d’animaux. Pour remplir l’espace postérieur du piédestal, il faut encore deux groupes : celui de grandeur moyenne représente ordinairement un berger ou une bergère, un cavalier ou une dame, un singe ou un chien dansant. Mais il reste encore un vide sur le piédestal : il est rempli le plus souvent par un nain, car cette race joue partout un grand rôle dans les plaisanteries insipides.

Mais, pour donner au complet les éléments de l’extravagance du prince Pallagonia, nous en dresserons le catalogue. Créatures Humaines : mendiants, mendiantes, Espagnols, Espagnoles, Maures, Turcs, bossus, gens contrefaits de toute sorte, nains, musiciens, polichinelles, soldats costumés à l’antique, dieux, déesses, gens habillés à l’ancienne mode française, soldats en guêtres, portant gibernes, mythologie avec des additions burlesques, Achille et Chiron avec Polichinelle. Animaux : figures incomplètes, cheval avec des mains, tête de cheval sur un corps humain, singes défigurés, dragons et serpents en nombre ; toute espèce de pattes à des figures de tout genre, doublements, permutations de têtes. Vases : toute sorte de monstres et d’ornements qui se terminent par en bas en ventres de vases et en socles.

Qu’on se représente ces figures exécutées par centaines, dépourvues de sens et d’esprit, rassemblées sans choix et sans dessein ; qu’on se figure ces socles, ces piédestaux et ces monstres alignés à perte de vue, on partagera l’impression pénible dont chacun doit être saisi, lorsqu’il est poussé à travers ces vergers de la folie.

Nous approchons du château, et une avant-cour demi-circulaire nous ouvre ses bras : le mur principal, en face, dans lequel est pratiquée la porte d’entrée, est construit comme une forteresse. Nous y voyons une figure égyptienne enchâssée dans le mur, un jet d’eau sans eau, un monument, des vases dispersés alentour, des statues qu’on a couchées sur le nez. Nous entrons dans la cour du château, et nous trouvons le rond traditionnel, entouré de petits bâtiments, et formant dans son contour des demi-cercles plus petits, afin que la diversité ne manque pas. Le sol est en grande partie gazonné. Il s’y trouve, comme dans un cimetière dégradé, des vases de marbre bizarrement contournés, qui proviennent du père ; des nains et d’autres monstruosités d’une époque plus récente, jetés pèle mêle sans avoir pu jusqu’à ce jour trouver une place. On passe même devant un berceau tout rempli d’anciens vases et d’autres pierres contournées. Mais l’absurdité de ce mauvais goût se montre au plus haut degré en ce que les corniches des petits bâtiments sont inclinées d’un côté ou de l’autre, en sorte que le sentiment du niveau et de la ligne verticale, qui est une loi de l’intelligence humaine et la base de toute eurythmie  est blessé et froissé en nous. Et toutes ces toitures sont bordées à la file d’hydres et de petits bustes de singes musiciens et de folies pareilles. Les dragons alternent avec les dieux ; un Atlas, au lieu de la voûte du ciel, porte sur le dos une futaille.

Si l’on croit échapper à tout cela dans le château, bâti par le père, et qui offre un aspect relativement raisonnable, on trouve, un peu en avant de la porte, une tête d’empereur romain, couronnée de lauriers, posée sur un corps de nain, qui est assis sur un dauphin. Dans le château même, dont l’extérieur fait attendre un intérieur passable, la fièvre du prince recommence à extravaguer. Les pieds des chaises sont sciés inégalement, en sorte que personne ne peut s’asseoir, et le concierge invite les visiteurs à se défier des sièges solides, parce que sous leurs coussins de velours ils cachent des épines. Dans les angles sont des candélabres en porcelaine de Chine, qui, observés déplus près, sont composés de tasses, de coupes, de soucoupes et autres pièces cimentées ensemble. Pas un coin où ne se montre quelque caprice. Et même la vue admirable de la mer, par-dessus les promontoires, est gâtée par des vitraux coloriés qui, par un ton faux, refroidissent ou embrasent la contrée. Je dois citer encore un cabinet lambrissé de vieux cadres dorés, taillés pour être ajustés ensemble. Là toutes les mille formes de ciselure, toutes les différentes dégradations de dorures vieilles ou nouvelles, plus ou moins poudreuses et endommagées, se pressent les unes contre les autres, couvrent toutes les murailles, et donnent l’idée d’une boutique de bric-à-brac.

Il faudrait un volume pour décrire la chapelle seulement. On y trouve la clef de toute cette extravagance, qui ne pouvait pulluler à ce point que dans un esprit bigot. Je laisse à penser toutes les grossières images d’une dévotion déréglée qui peuvent se trouver là, mais je ne passerai pas le meilleur sous silence. On voit fixé au plafond un crucifix sculpté assez grand, ayant les couleurs de la nature, verni, avec de la dorure entremêlée. Dans le nombril du crucifix est vissé un crochet ; à ce crochet est suspendue une chaîne fixée à la tête d’un adorateur agenouillé, qui flotte dans l’air, et qui, peinturé et verni,comme toutes les autres images de l’église, doit présenter un emblème de l’incessante dévotion du seigneur châtelain. Au reste le palais n’est pas terminé : une grande salle, établie par le père, et dont la décoration riche, variée, n’est pas d’un effet désagréable, est inachevée ; car la vaste folie du maître ne peut venir à bout de ses extravagances.

Kniep, dont le sens artiste était révolté dans cette maison d’aliénés, s’est montré impatient pour la première fois : il m’a entraîné comme je cherchais à me représenter et à noter en détail les éléments de cette absurde création. Toutefois il a bien voulu à la fin dessiner un des groupes, le seul qui offrît du moins une sorte de tableau. Il représente une femme à tête de cheval, assise sur une chaise et jouant aux cartes avec un cavalier dont le corps est vêtu à la vieille mode, et dont la tête de griffon est parée d’une grande perruque surmontée d’une couronne. Cela rappelle les armes de la maison Pallagonia, qui sont encore bien étranges après toutes ces folies : un satyre présente le miroir à une femme à tête de cheval.

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